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Uranio: il minerale della discordia

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Segnali silenziosi di un cambiamento epocale

Il cambiamento c’è, ma non si vede. I segnali sono pochi, e in genere si tratta di notizie di rilevanza marginale. L’Iran cerca l’uranio in Bolivia; Russia e Kuwait firmano accordi di cooperazione nella progettazione di centrali atomiche; USA e Russia decidono congiuntamente di ridurre gli stock militari di plutonio; L’Egitto ottiene l’approvazione della IAEA per la costruzione di nuove centrali. Sembra essersi diffusa, fra le maggiori potenze mondiali, la preoccupazione di produrre energia elettrica attraverso la tecnologia nucleare. Non ultima l’Italia, visti i recenti rapporti fra Enel e Edf.

Il quadro si fa un po’ più chiaro guardando cosa è successo, negli ultimi anni, al prezzo dell’uranio.

Nella maggior parte dei Paesi, le centrali nucleari si assicurano la parte più importante del loro fabbisogno di uranio mediante contratti a medio e lungo termine con produttori esteri (mercato a termine). Tali contratti prevedono che le consegne avvengano circa 3 anni dopo la stipula e sono validi per una media di 6 anni. A partire dal 2005, sembra che il periodo di fornitura previsto dal contratto si sia esteso, in alcuni casi fino a 10 anni. In altre parole, gli acquirenti stanno cercando di bloccare le forniture per un periodo più lungo.

Sul mercato a termine, il prezzo di una libbra di uranio ha raggiunto il suo massimo nel 2007: 95 USD, quando solo tre anni prima ne costava 25. Il prezzo ha poi iniziato la discesa, stabilizzandosi sui 60 USD/lb. Qualcosa di simile è accaduto al mercato a pronti (in cui i contratti prevedono che la consegna avvenga a poche settimane dalla stipula), le cui transazioni hanno iniziato a farsi consistenti intorno al 2004(1).

Gli studi del settore(2) confermano l’impressione immediata che queste tendenze siano dovute, insieme a vari altri elementi, al rinnovato interesse per l’energia elettronucleare di cui si è detto: molti Paesi stanno rivedendo i propri piani energetici in questo senso.

Una risorsa attraente

Le motivazioni alla base di questa scelta sono molte. Inutile ribadire quanto gli studi portati avanti dalle agenzie che operano nel settore reputino questa forma di energia conveniente, sia in termini economici che di emissioni di biossido di carbonio. Studi per altro non esenti da critiche, soprattutto di tipo metodologico.

Gli elementi in questo senso meno attaccabili, che rendono l’uranio una risorsa strategica, sono essenzialmente due.

In primo luogo, occorre considerare la stabilità del prezzo dell’energia elettrica rispetto alle variazioni del prezzo della materia prima. Il processo di lavorazione dell’uranio è piuttosto lungo, e per ottenere il combustibile adatto al funzionamento del reattore c’è bisogno di una consistente manodopera: il costo finale è dato, più che dal prezzo del minerale in sé, da questa componente. Se ne può dedurre che, a fronte di una variazione anche forte del prezzo dell’uranio, il costo del prodotto finale non dovrebbe variare di molto. Questo rende la tecnologia nucleare più “sicura” rispetto alle altre, in primo luogo rispetto alla combustione di carbone e gas(3).

Uno studio portato avanti in sede OECD(4) ha fornito una misura quantitativa di questa convenienza, stimando l’aumento percentuale che si otterrebbe sul prezzo finale dell’energia a fronte di un raddoppio del costo della materia prima. Questo inciderebbe per il 40% nel caso di una centrale a carbone, per il 75% nel caso di una centrale a gas, e solo per il 4% nel caso di una centrale nucleare. Se, anziché al minerale, guardassimo al combustibile finito, si avrebbe un aumento del 15%. Un vantaggio innegabile.

In secondo luogo, occorre rilevare che l’uranio è un minerale presente sulla quasi totalità della superficie terrestre. Si tratta di una caratteristica importante: esattamente come un investitore che diversifica il portafoglio degli investimenti per ridurne il rischio, uno Stato deve diversificare la provenienza delle proprie forniture, per evitare che un evento qualsiasi (guerre, calamità naturali, incidenti diplomatici) interrompa gli approvvigionamenti, gettando il Paese nel caos.

Le conseguenze di questo fenomeno, oltre che rilevanti e controverse sul fronte interno, sono, per i Paesi fornitori, di portata ben più ampia di quanto si possa immaginare.

Cerchiamo di capire perché.

Tanti fruitori, pochi fornitori

La prima considerazione, abbastanza ovvia, è la seguente: affinché, in un dato territorio, l’estrazione di un dato minerale si riveli redditizia, occorre che questo sia sufficientemente concentrato. È per questo che le analisi, normalmente, si focalizzano sulle risorse estraibili ad un costo inferiore ai 130 USD per chilogrammo di uranio. È inoltre per  questo motivo che la produzione di uranio è concentrata in pochi Paesi, appena 19, contro i 31 che hanno bisogno di questo minerale per produrre elettricità. Fra i maggiori produttori figurano, subito dopo i tre “giganti” del’uranio (Canada, Australia, Kazakistan), Paesi Africani come Niger, Sud Africa e Namibia(5).

Nel corso degli ultimi venti anni, le spese per l’esplorazione (sia su territorio nazionale che non) in tutti i Paesi interessati sono diminuite progressivamente. Dal 2004 si è registrata un’inversione di tendenza, riguardante però solo i Paesi produttori e sul solo versante interno. Attualmente, la produzione da estrazione mineraria(6) soddisfa solo il 50-60% della domanda mondiale, e il 40% della domanda nell’OECD. Nel 2004 solo Canada e Sud Africa producevano abbastanza per soddisfare la domanda interna, mentre gli altri Paesi si affidavano alle importazioni o alla produzione secondaria.

Questi dati possono essere riassunti in questo modo: abbiamo a che fare con una materia prima “interessante” per vari motivi; per ironia della sorte, molti dei potenziali fruitori si sono, per così dire, “disinteressati” del suo reperimento per circa un ventennio, da quando l’incidente di Chernobyl ha terrorizzato l’opinione pubblica, scoraggiando tutti quelli che, a vario titolo, volessero proseguire sulla strada del nucleare. Le necessità degli ultimi anni hanno dato il via ad una “corsa” in cui tutti i giocatori sono interessati ad aggiudicarsi prima degli altri le forniture, “bloccando” i contratti o assicurandosi lo sfruttamento dei giacimenti più promettenti. Questa dinamica, come si è già anticipato,  ha delle ripercussioni molto importanti sui produttori africani. Per rendersene conto, basta andare sul sito della World Nuclear Association e sbirciare la lista dei maggiori operatori nel settore estrattivo dell’uranio(7).

Nel 2008, l’87% della produzione mineraria mondiale era assicurato da dieci imprese; tra queste, le più importanti erano l’anglo-australiana Rio Tinto, la canadese Cameco (Canadian Mining and Energy Corporation), la francese Areva, la kazaka KazAtomProm. L’insieme delle quattro aziende provvedeva al 59% della produzione mineraria mondiale.

La tabella 1 riporta appunto la ripartizione delle quote di mercato fra le varie imprese mondiali, sulla base della percentuale di output.

Non è un caso che, nel 2004, la Francia fosse una delle sole quattro nazioni che avessero registrato in bilancio una spesa per l’esplorazione mineraria al di fuori del proprio territorio nazionale(8): quasi l’80% dell’elettricità francese è prodotta in centrali nucleari, ed una delle maggiori imprese estrattive è francese.

Tabella 1 – Produzione mineraria di uranio per impresa

Impresa Tonnellate U %
Rio Tinto 7975 18
Cameco 6659 15
Areva 6318 14
KazAtomProm 5328 12
ARMZ 3688 8
BHP Billiton 3344 8
Navoi 2338 5
Uranium One 1107 3
Paladin 917 2
GA/ Heathgate 636 1
Altri 5620 13
Totale 43,93 100

Fonte: World Nucelar Association

Nell’ottica di quanto esposto sopra, il governo francese (che è anche il maggiore azionista di Areva) ha due motivi per assicurarsi l’accesso all’estrazione di uranio: primo, perché ne ha bisogno per alimentare la sua imponente industria nucleare; secondo, per sfruttare i vantaggi della “corsa” alle forniture di uranio. Non disponendo di risorse proprie, deve necessariamente rivolgersi a Paesi esteri.

L’interlocutore privilegiato

La tabella 2 fornisce un’idea di come è ripartita la proprietà degli impianti di produzione fra operatori pubblici e privati per i più importanti Paesi produttori. Russia, Uzbekistan e Kazakistan possono essere scartati da subito: è difficile inserirsi in quello che è, di fatto, un monopolio statale (primi due casi), così come risulterebbe difficile farsi strada all’interno di un sistema di relazioni diplomatiche privilegiate come quelle che intercorrono fra Russia e Kazakistan.

Canada, Australia, Niger e Namibia, possono essere messi sullo stesso piano? Certamente no. Sia il Canada che l’Australia possono contare su un’esperienza più che ventennale e su un’impresa nazionale che opera nel settore. Un eventuale operatore esterno che volesse ottenere dei permessi per l’esplorazione o acquistare dei siti per l’estrazione, dovrebbe fare i conti con due “giganti” già attivi sul territorio. Quando si ha a che fare con un Paese in via di sviluppo, magari estremamente povero, si ha solo da guadagnare, soprattutto se sono già state instaurate delle relazioni diplomatiche privilegiate. L’’instabilità politica, tuttavia, è una nota fortemente negativa, poiché fa aumentare il rischio che una guerra o un rovesciamento politico intervengano a rallentare le operazioni.

Tabella 2 Proprietà delle produzioni di uranio basata sull’ output (%) al 2004

Imprese nazionali Imprese estere
Attori pubblici Attori privati Attori pubblici Attori privati
Australia 0 44 3,6 52
Canada 0 66 32,5 1,5
Kazakistan 73 17,4 0 9,6
Russia 100 0 0 0
Niger 33,2 0 0 66,8
Namibia 3,5 96,5 0 0
Uzbekistan 100 0 0 0

Fonte: NEA-IAEA (2005)

Uno strano destino. Il caso Niger.

Il caso nigerino è abbastanza esemplificativo. Il Niger è uno dei Paesi più poveri al mondo, che ha sperimentato una crescita lenta e faticosa, e la cui stabilità politica sembra tutt’altro che consolidata. Questi due elementi in particolare sembrano essere inesorabilmente collegati con la presenza di uranio nel Paese, l’unica risorsa veramente abbondante, insieme all’oro.

Per molti anni, l’economia di questo Paese non ha sperimentato altre forme di produzione che l‘allevamento, la pesca e l’agricoltura. L’unica eccezione significativa è rintracciabile negli anni dal 1979 al 1982: gli anni del boom nucleare(9), durante i quali il tasso di crescita annuo del PIL reale pro capite triplicò(10), e il settore minerario raggiunse il 13% della produzione nazionale. Non è necessario ribadire cosa accadde dopo: l’industria nucleare mondiale subì una battuta d’arresto, e così l’economia del Niger. Il PIL reale pro capite conobbe una diminuzione del 3,4% annuo, mentre la siccità danneggiava il settore primario, gli investimenti dall’estero diminuivano, e il debito pubblico (che negli anni del boom aveva finanziato l’investimento in infrastrutture) aumentava. Ad oggi, dopo una lenta ripresa (il Paese ha beneficiato di aiuti internazionali e agevolazioni sul pagamento degli interessi sui prestiti), dopo immani sforzi di modernizzazione e sviluppo umano, l’uranio costituisce la risorsa naturale più significativa del territorio nigerino e la principale merce di esportazione. I siti più promettenti e più sfruttati sono situati nella regione a Nord del Paese.

La Francia compare sia come interlocutore diplomatico privilegiato che come donatore. Sul fronte dell’estrazione, Areva detiene il controllo delle due compagnie minerarie nazionali e delle due miniere esistenti (Cominak e Somair).

Il governo democraticamente eletto di Mamadou Tandja, l’unico che è riuscito a governare ininterrottamente per dieci anni, ha adottato la strategia della ricerca di investimenti esteri privati. Sul versante dell’uranio, è riuscito a imporre dei cambiamenti consistenti. Anzitutto, nel 2007, ha ottenuto da Areva che il prezzo dell’uranio venisse raddoppiato (11). Sempre nel 2007, la Exelon Corporation (una holding statunitense) ha stipulato con il governo un contratto per l’acquisto di 300 tonnellate di uranio all’anno per dieci anni. Nello stesso anno il governo ha accordato 122 licenze per esplorazione a compagnie estere (Francesi, Cinesi, Canadesi, Australiane, Indiane, Sud Africane e Statunitensi). In quello stesso anno, un articolo pubblicato sull’Economist (12) affermava che Areva aveva perso il monopolio durato 36 anni.

All’inizio del 2009, Areva e il governo nigerino hanno firmato la licenza per uno scavo minerario ad Imouraren (località isolata, a circa 160 chilometri a nord di Agadez e 80 km a sud di Arlit). Areva ha accettato di costituire una joint venture per il progetto, in cui detiene il 66,65%, lasciando il restante 33,35% allo stato del Niger. Questa miniera dovrebbe rendere 5.000 tonnellate di uranio all’anno, per più di 35 anni, più che raddoppiando le esportazioni di uranio in corso. Si tratta del più grande progetto mai realizzato in Niger.

Cosa si cela dietro questi dati?

Anzitutto un problema redistributivo. Non è un caso che, proprio nel 2007, si siano risvegliati i malcontenti della comunità Tuareg. Non si tratta di un conflitto puramente etnico: anzitutto il gruppo dei ribelli ha un nome, Mouvement des Nigériens pour la Justice (MNJ). In secondo luogo ha un sito internet, facilmente accessibile da google, attraverso il quale comunica al mondo le proprie rivendicazioni. Richieste semplici: distribuire equamente le ricchezze derivanti dallo sfruttamento minerario, assumere nigerini, salvaguardare l’ambiente e rispettare i costumi locali. Ad Arlit (un altro sito di estrazione), si legge, la popolazione è ancora costretta ad attingere l’acqua dai pozzi, acqua per di più inquinata, nonostante i quasi quarant’anni di investimenti confluiti nella zona. Ogni attività commerciale, continua l’articolo, è resa impossibile e il livello di radioattività è 10 volte superiore al normale. L’Africa Research Bulletin, in un articolo del 4 giugno 2009(13), cita uno studio di Survie, una ONG specializzata nelle relazioni franco-africane, in cui si evidenzia che lo sfruttamento minerario nel nord del Niger non migliora le condizioni di vita della popolazione locale, ma che al contrario ha effetti disastrosi sul piano sociale, ambientale e della salute. Anche la CRIIRAD denuncia la presenza ad Arlit di rifiuti radioattivi abbandonati in giro, che la popolazione locale raccoglie e utilizza nei modi più disparati. Una situazione che, per chi si occupa di problemi ambientali ed ha familiarità con le teorie sul commercio internazionale, è nota come “pollution heaven”: se la produzione di alcuni beni richiede, ad esempio, più manodopera, sarà il Paese in cui la manodopera costa meno a specializzarsi nel produrre quel bene. Allo stesso modo, se la produzione di uranio provoca alti livelli di inquinamento, costerà di meno produrre uranio là dove le istituzioni sono più deboli, e i controlli meno rigidi. Ed è là che i produttori di uranio andranno a investire i propri capitali. A scapito delle popolazioni locali.

Naturalmente non finisce qui. La pagina web del MNJ afferma di ricevere le armi da commercianti Tuareg, di contare solo sulle proprie forze e di non accettare finanziamenti o aiuti da governi esteri. Al contrario, a Niamey non sono state risparmiate accuse di simpatia per i ribelli. Fondamentalmente rivolte a due stati: Francia e Libia.

La Libia è coinvolta per via di un’annosa contesa di confine: la regione in questione è ricca, oltre che di uranio, di oro e petrolio. È stato Gaddafi, del resto, a mediare i negoziati tra il governo e l’MNJ nel 2009.

Che il governo francese sia alleato di un movimento che boicotta le operazioni di Areva, potrebbe sembrare poco probabile. Bisognerebbe capire cosa si adatti di più alle esigenze commerciali di Areva: che il governo prosegua sulla strada delle infrastrutture e delle riforme, guadagnando stabilità e pacificando la zona, o che si indebolisca ulteriormente per non erodere il monopolio che il gigante francese ha esercitato fino a tre anni fa sull’uranio nigerino.

Così facendo si getterebbe luce anche sulla recente deposizione del presidente Tandja, rovesciato da una giunta militare per aver tentato di imporre una riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di governare per altri due anni.

Qualunque sia la chiave di lettura, questi conflitti si inseriscono in un contesto in cui le istituzioni locali devono, evidentemente, ancora trovare una logica di funzionamento stabile. Come finirà la vicenda del MNJ, di questo estremo tentativo di tutelarsi, fra costituzioni che vanno e vengono e interessi che restano sempre uguali?

*Federica Nalli è dottoressa in Scienze Politiche (Università degli studi di Firenze)

(1) E. O. Michel-Kerjan, D. K. Decker (2007)

(2) E. O. Michel-Kerjan, D. K. Decker (2007)

(3) Le fonti rinnovabili di solito vengono escluse dall’analisi in quanto fortemente vincolate alle condizioni meteorologiche e inadatte a soddisfare la domanda in modo continuo

(4) Risks and benefits of Nuclear Energy, OECD (2007), Parigi

(5) I dati qui riportati si riferiscono ai giacimenti noti come Risorse Identificate (IDR, Identified Resources), a loro volta suddivisi in Risorse Ragionevolmente assicurate (Reasonably Assured Resources, RAR) e Non Scoperte (Undiscovered Resaurces, UR), cioè dedotte da stime geologiche.

(6) La produzione da estrazione mineraria va sotto il nome di produzione primaria, mentre per produzione secondaria si intende una serie di produzioni alternative quali: il riprocessamento del combustibile esaurito; la riconversione del plutonio di grado militare; l’arricchimento dell’uranio impoverito; il ricorso agli stock di uranio arricchito, sia civili che militari.

(7) Occorre distinguere quattro principali segmenti del mercato, uno per ogni fase del ciclo di produzione del combustibile: estrazione, conversione, arricchimento, fabbricazione del combustibile.

(8) Le altre tre erano Australia, Canada, Svizzera

(9) Pur essendo iniziata nel 1971, l’estrazione di uranio divenne consistente solo nel 1979. fonte: FMI,

([1]0) FMI,

([1]1) Background Notes on Countries of the World: Republic of Niger Feb2010, p1-1

([1]2) Economist 9/15/2007, Vol. 384 Issue 8546, p62-62

([1]3) Volume 46, Issue 4, pages 18253C–18254C, June 2009

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